The Two Presidents and the Putin Factor: A Transition War

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I due presidenti e il fattore Putin, la guerra della transizione

Mai un passaggio è stato così ruvido. Dalle mosse contro la Russia agli attacchi a Israele, Barack non risparmia colpi e The Donald risponde

WASHINGTON – In quello che ormai è un triangolo di guerra politica, strategica e personale fra Obama, Trump e Putin, cade la bomba delle rappresaglie anti russe sganciate dal Presidente in carica a soli venti giorni dal suo addio.

Le misure punitive annunciate con il massimo clamore possibile da un Presidente che non si rassegna al passaggio dello scettro e al tramonto dell'”anatra zoppa” sono dirette tanto a Putin quanto al suo nuovo amico americano, a Trump, perché le sanzioni, le espulsioni, le reti di spionaggioi smantellate avrebbero potuto attendere tre settimane, senza fare altri danni. Ma Obama ha voluto marcare il punto, colpire due bersagli insieme e sottolineare quanta abissale distanza lo separi dall’uomo che il 20 gennaio siederà sulla sua poltrona nello Studio Ovale.

Mai, a memoria di giornali, radio, televisioni e ora di Social Network si era vista una transizione presidenziale così ruvida e tanto recalcitrante e tanto attivista da parte del presidente in uscita. Nessuno dei due rinuncia all’acre piacere del dispetto e dello sgambetto, attizzato per entrambi da sondaggi che regalano al deposto sovrano più popolarità (56%) che al sovrano entrante, furioso nella vanità ferita al record minimo di popolarità per un neo eletto, al 42%, un duello che ieri Barack Obama ha alzato di livello, con le sanzioni gridate a Putin perché Trump intenda. “Sono scintille senza incendio” rassicurano i portavoce dei due campi. “Un giorno finiranno per giocare a golf insieme”, garantisce il portavoce del comitato per l’insediamento di Trump, un signora dal profetico nome di Toni Scaramucci. Ma per ora, se Barack e Donald si incontrassero su un “green” forte sarebbe il rischio di mazzate.

Non è soltanto il frutto dell’ovvia rivalità fra due “lupi alfa”. Questo mese di scintille è il prodotto inevitabile di quella estrema, combustibile polarizzazione politica che la campagna elettorale ha acceso, all’interno della società americana e nei rapporti internazionale. Tutto ora torna a galla. La presunzione di Obama, che in un’intervista si dice convinto che avrebbe facilmente battuto Trump e conquistato un terzo, immaginario, mandato presidenziale. La adolescenziale permalosità dell’altro, che nella solitudine della notte risponde lanciando come petardi i suoi tweet e recita la parte dell’agnello offeso: “Ma QUANDO MAI. Tra Isis, posti di lavoro perduti, Sanità” avrebbe vinto anche contro di lui. E poi: “Sto facendo del mio meglio per ignorare le fiammate e gli ostacoli lanciati dal Presidente O (sic) e invece lui NO!”. “Obama non sa che cosa significhi lasciare la poltrona con grazia e classe ” rincalza John Bolton, pit bull della nidiata neo con, quelli che ci regalarono l’esportazione della democrazia in Iraq, oggi ripescato da Trump. Al che, con la gelida e professorale calma che indossa quando è furioso, il tra poco ex Presidente replica: “Dobbiamo resistere alla tentazione del tribalismo e dell’autoreferenzialità, proprio quando l’odio brucia più forte”.

Dal personale al politico, dalle punzecchiature alla strategia, il patrono deluso di Hillary Clinton approfitta di ogni ora che gli rimane nello Studio Ovale per imbottire di chiodi la poltrona sulla quale il successore si siederà il 20 gennaio a mezzogiorno. Dichiara off limits, intoccabili, i giacimenti sottomarini di petrolio nell’Artico che i petrolieri scelti da Trump per il suo governo, come il boss della Exxon, guardavano golosamente. Sgambetta il premier Netanyahu sull’espansione israeliana nei Territori, non opponendosi all’Onu che – da sempre – la considera illegale, spingendo Trump a sparare un tweet di prima mattina con toni da Settimo Cavalleria al ranch assediato dai selvaggi: “Sii forte, Israele, resisti, stiamo arrivando, il 20 gennaio è vicino”. E ora l’ultimo colpo contro il Cremlino per punire i russi di avere aiutato Trump con i suoi interventi anti Hillary via Wikileaks.

Ma da bravi genitori impegnati nel più rancoroso dei divorzi, i due fingono buone maniere per il bene dei bambini. Si telefonano, come hanno fatto mercoledì, promettendosi quella “collaborazione” che finora non si è vista e comincia a ricordare l’uscita del Team Clinton costretto a lasciare non a Gore ma a Bush la Casa Bianca, non senza avere vandalizzato computer e distrutto suppellettili, per fare terra bruciata ai bushisti. “I nostri staff collaborano ottimamente – fa sapere Trump, sottolineando “gli staff”, non loro due – abbiamo riso fra di noi e mai ci faremo la guerra, anche se io ho dovuto rispondere a un paio di sue dichiarazioni”.

Ma 20 giorni sono ancora tanti e ogni giorno una nuova scintilla potrebbe espandere l’incendo, come la Bomba Sanzioni, che ora Trump dovrà disinnescare o subire, dimostra. Obama si sente, freneticamente, investito dal compito di limitare preventivamente i danni che secondo lui Trump farà. Nell’assenza di quella “Lupa Alfa” umiliata e sconfitta che sembra scomparsa completamente dalla scena del grande dramma della transizione di potere: Hillary Clinton, la Desaparecida.

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