Trump e le visioni apocalittiche degli oracoli Jeffres e Hagee
Due insoliti personaggi sono forse rappresentativi del calcolo politico di Donald Trump sulla tragedia israelo-palestinese. Non di quello internazionale, dove ha scommesso su un azzardato ribaltamento di decenni di strategia americana che lasciava il futuro di Gerusalemme a negoziati di pace oggi sempre più lontani. Di un altro calcolo, quello domestico. Le due figure sono state tra i grandi invitati alla cerimonia di inaugurazione della nuova ambasciata statunitense, o meglio del vecchio consolato ristrutturato e ribattezzato nella fretta di mantenere promesse elettorali.
Ma non si tratta di dignitari dell’amministrazione o della famiglia Trump, pur accorsi numerosi: dalla figlia Ivanka al genero Jared, dal Segretario al Tesoro Steven Mnuchin all’ambasciatore David Friedman, la cui esperienza di gran sostenitore di insediamenti israeliani e di avvocato specializzato in bancarotte ne hanno evidentemente fatto un candidato irresistibile alla delicata poltrona per la diplomazia stile Trump.
La strana coppia di cui parliamo e’ composta da due reverendi texani, uno di Dallas e uno di San Antonio, incaricati di offrire la loro benedizione all’inizio e alla fine di una cerimonia dove giacche, cravatte, applausi, sorrisi e ceroni hanno creato un surreale contrasto con la violenza esplosa a poche decine di chilometri di distanza.
I due sono il 78enne John Hagee, tele-evangelista di una mega-Chiesa a San Antonio e fondatore dell’associazione Christians United for Israel, e il 62enne Robert Jeffres, pastore della First Baptist Church di Dallas. Non sono stati timidi nelle loro “omelie” da crociata: Jeffres, parlando di Trump in apertura dell’evento, ha detto che il Presidente, oltre che della storia, è «a fianco di Dio quando si tratta di Israele». In chiusura, Hagee ha invocato «che ogni terrorista islamico ascolti questo messaggio, Israele vive». E a Trump ha promesso, se non vita eterna, almeno «immortalita’ politica».
Qualche miscredente potrebbe notare che, se la loro influenza nella comunità evangelica è indiscussa, la loro “fedina” politica e religiosa è men che immacolata. Jeffres è noto per dichiarazioni controverse come questa, rilasciata al Trinity Broadcasting Network nel 2010: la sua Bibbia sostiene che «l’Islam è sbagliato, è un’eresia che nasce dai pozzi dell’inferno». Simili origini demoniche avrebbero anche i Mormoni. E gli ebrei? «Un ebreo non puo’ essere salvato», perché la salvezza è riservata alla «fede in Gesù Cristo».
Hagee, da parte sua, ha la discutibile paternità di aver invocato piaghe bibliche per spiegare l’uragano Katrina che nel 2005 ha devastato New Orleans, mietendo 1.200 vittime: «New Orleans viveva in uno stato di peccato che offendeva Dio e ha ricevuto il giudizio divino», aveva sentenziato durante un’intervista radiofonica. Per chi avesse ancora dubbi sulla sua lezione morale aveva rincarato: «Katrina e’ stato il giudizio di Dio contro la città di New Orleans».
Al popolo ebraico Hagee si sente però più vicino: lo vede salvato da un secondo avvento di Gesù, che assicura essere imminente. Al suo arrivo, ha predetto, gli ebrei lo accetteranno e segno di questa accettazione sarà il fatto che piangeranno «per un periodo di una settimana». Nessuna lacrima salvifica per i musulmani: tra le sue visioni c’è un minaccioso esercito di 200 milioni di seguaci dell’Islam pronto a entrare negli Stati Uniti o a invadere Israele per distruggerlo. Anche su Israele, tuttavia, Hagee è autore di commenti men che universalmente condivisi: considera Hitler e l’Olocausto parte della strategia divina per un ritorno degli ebrei in Terra santa. La «priorità di Dio» era questa e quindi «ha lasciato che accadesse» (l’Olocausto).
Ma ad attirare Trump e la sua squadra non sono profezie e letture della Bibbia. Sono comandamenti assai più prosaici. È l’essenziale base ultraconservatrice e della destra religiosa americana – mobilitata dal Presidente (l’81% ha votato per lui) e rimasta fedele in vista delle urne di Midterm a novembre – ad avere un debole per le profezie e che Trump vuole accomodare e soddisfare, anche solo d’istinto. Ben oltre metà dei cristiani evangelici approva la decisione di Trump di trasferire senza indugi l’ambasciata a Gerusalemme. Una minoranza elettorale ma militante, organizzata e spesso dominante nei circoli repubblicani. Un terzo degli evangelici, 15 milioni in tutto, rappresenta la dura punta di diamante di questo gruppo. Schiere di credenti convinti che è in gestazione un’epoca d’oro con Cristo che regnerà in Terra. Prima dell’avvento del suo regno ci sarà un prezzo da pagare: un periodo cupo e violento, di disastri e conflitti, dove il male dovrà essere sconfitto. Seguito dalla conversione, anche degli ebrei, alla vera fede, unica garanzia di salvezza. I miscredenti rimasti saranno a quel punto spazzati all’inferno, quello fatto letteralmente di fuoco e fiamme.
In questa dottrina, la nascita e il successo di Israele, con il rientro di tutti gli ebrei in Terra santa, è considerato uno dei segni cruciali dell’auspicata e inevitabile fine del mondo. L’America come il Medio Oriente – per parafrasare quanto scritto da Ugo Tramballi in questi giorni sul Sole 24 Ore – soffre di una drammatica carenza di leader visionari per affrontare le sfide aperte. Qualunque progetto di pace per la Palestina, anche uno eventualmente promosso da Trump, difficilmente potrà decollare nell’attuale clima. Il rischio è piuttosto che, da ogni parte, trovino spazi solo visioni apocalattiche di oracoli quali Jeffres e Hagee.
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