Dazi, Washington e Pechino ai ferri corti. Ma per Trump il dollaro forte è un rischio
Alle minacce di Donald la Cina risponde con altre misure per 60 miliardi
Avanti di questo passo, e arriverà il dazio perfino sugli spilli. Tra Usa e Cina le punzecchiature dialettiche hanno da settimane lasciato il posto ai cannoneggiamenti da guerra commerciale mentre i negoziati sono fermi come un tir parcheggiato di traverso, le dichiarazioni sempre più livide e le minacce continue.
Pechino, che ha mal digerito l’ultima intemerata con cui Donald Trump si è detto pronto ad aumentare le tariffe su altri beni del Dragone per 200 miliardi di dollari, ha aggiunto così ieri un’altra puntata alla telenovela del tit for tat, più prosaicamente noto come pan per focaccia: misure punitive per 60 miliardi andranno a colpire oltre 5.200 prodotti made in Usa (dall’olio di soia a quello di arachide, dal caffè ai liquori; dai semiconduttori ai prodotti chimici) se la Casa Bianca non farà retromarcia. Cosa che dalle parti di 1600 Pennsylvania Ave non sembrano aver nessuna intenzione di fare. La Cina «non dovrebbe sottovalutare la determinazione del presidente Trump a spingersi ancora oltre», ha tuonato il consigliere economico del tycoon, Larry Kudlow.
Il punto è che qualche economista sta cominciando a interrogarsi se The Donald uscirà alla fine vincitore da questa escalation di ritorsioni. Per l’America non c’è in ballo solo il riequilibrio dei conti commerciali con l’ex Celeste Impero (nel primo semestre il disavanzo è salito di quasi il 9%), o l’asserita difesa dei prodotti tecnologici da cui dipende la sicurezza nazionale. Trump affastella dazi su dazi nel tentativo di controbilanciare la svalutazione dello yuan, attraverso cui Pechino ha finora di fatto sterilizzato l’impatto delle misure tariffarie già entrate in vigore. Non a caso, proprio nel giorno in cui ha minacciato Washington di prendere altri provvedimenti punitivi, il governo cinese ha anche offerto il ramoscello d’ulivo aumentando il costo degli scambi contro la valuta nazionale. Un modo per evitarne il deprezzamento.
Posto che i cinesi sono imbattibili nel dosare bastone e carota, il rischio derivante da una lunga trade war è che Trump ottenga esattamente l’opposto di ciò che desidera. In particolare, un dollaro ancora più forte (Pechino spingerebbe sul pedale della svalutazione competitiva) e una fiammata inflazionistica che non solo eroderebbe il potere d’acquisto degli americani a pochi mesi dalle elezioni di mid-term, ma che costringerebbe la Federal Reserve ad attuare una politica sui tassi perfino più aggressiva di quella, peraltro osteggiata proprio dal presidente Usa, che prevede altri due rialzi entro la fine dell’anno e tre strette nel 2019. Ecco perché non pochi esperti consigliano di favorire una politica monetaria serrata. Lo scopo? Colpire un’economia come quella cinese resa fragile da un debito totale pari al 300% del Pil e tenuta insieme dai controlli di capitale. Se i soldi scappano davvero (è già successo nel 2015-16, quando il governo cinese fu costretto a usare 1 miliardo di dollari di riserve), il banco del Dragone rischia di saltare.
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