“Drain the swamp”: Donald Trump lo ha promesso per l’intera durata della scorsa campagna per le presidenziali. La palude da drenare non era solo quella politico – finanziaria delle élite democratiche, ma soprattutto il guado in cui molti cittadini americani erano finiti a causa delle conseguenze della crisi economica.
Basta leggere le statistiche: le promesse sono state mantenute. In Occidente è abbastanza chiaro a tutti: gli Stati Uniti e il loro primato sono tornati. I teorici del multilateralismo, quelli secondo cui la geopolitica mondiale avrebbe assistito, dalla grande recessione del 2010 in poi, a un’equiparazione gerarchica tra sei – sette potenze commerciali emergenti, non possono non notare come la partita, oggi, sia per lo più tra States e Repubblica popolare cinese.
A novembre del 2020 sapremo se anche i cittadini americani hanno la stessa percezione. Partiamo dai dati sull’occupazione. L’ultimo tra quelli completi è riferito al 2018: l’incremento dei posti di lavoro registrato è pari al più 2,64 su base percentuale. Ma è un numero che va interpretato alla luce di una tendenza generale, che non fa che certificare quella che in letteratura si chiama “crescita economica”. All’interno di questo articolo si possono apprendere i dettagli dello spaccato completo. Poi ci sono i record di Wall Street, che mai come sotto questa presidenza ha potuto vantare certe performance.
Insomma, discutere è utile fino a che i numeri lo consentono. Poi diventa un esercizio di stile. Trump ha adottato politiche reaganiane o keynesiane, ma sono dettagli nominalistici. Il tratto comune, come evidenziato su Il Giorno in un altro articolo, a firma di Cesare De Carlo, è che i fondamentali economici suggeriscono come The Donald possa essere rieletto in barba a chi lo considerava un imprevisto della storia. I democratici – capiamoci – stanno facendo il meglio possibile.
Le primarie, che inizieranno a gennaio del 2020 con i caucus in Iowa, consentiranno agli elettori di scegliere per davvero. Questa volta non c’è un vincitore designato. Non c’è una Hillary Clinton davanti alla quale sono tutti costretti a inchinarsi. Joe Biden è il candidato dell’establishment, viene dato in vantaggio, ma c’è la percezione che possa essere sovrastimato per via della sua storia politica. È paradossale, ma il tycoon potrebbe avere qualche difficoltà in più affrontando uno tra Bernie Sanders e Pete Buttigieg.
L’ex vicepresidente di Barack Obama è troppo legato all’apparato democratico che i cittadini americani hanno già ricusato ormai quasi quattro anni fa. Biden, che ne è consapevole, ha chiesto al primo presidente afro-americano della storia di non sostenerlo in maniera troppo manifesta. Ha dichiarato che deve vincere per meriti propri, ma la verità è un’altra: vuole evitare di essere accostato a chi, in fin dei conti, è già stato sconfitto dal magnate populista.
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