Midterm: gli Usa vanno verso il voto con le natiche di Trump in primissimo piano
da Massimo Cavallini
25 settembre 2022
“J.D. is kissing my ass; he wants my endorsement”. Questo ha detto Donald Trump nel corso d’un comizio – uno dei più trumpiani per la volgarità dei termini e per gli autocelebrativi accenti – da lui tenuto la scorsa domenica a Youngstown, in Ohio. E impossibile – impossibile senza alterare l’accuratezza della cronaca – è tradurre questa sua frase scansando l’uso d’uno di quei termini che, di norma, vanno evitati nel nome della salvaguardia del famoso “pubblico senso del pudore”. Lo giuro: ho provato ogni possibile ed eufemistica variante: chiappe, natiche, sedere, didietro, fondoschiena… mi sono spinto fino al più complesso e poetico “là dove non batte il sole”, passando per tutti i più teneri diminutivi (sederino, popò) appresi nella prima infanzia. Ma a nulla è servito. Perché “culo” è, inevitabilmente, l’unico termine che davvero corrisponde, in senso letterale e filosofico, all’inglese “ass”. E perché risibile sarebbe risultata, a conti fatti, qualsivoglia traduzione che non fosse la seguente: “J.D. mi sta baciando il culo” (in italiano molto più frequente è, in analoghe circostanze, l’uso del verbo leccare, ma non divaghiamo); “J.D. vuole il mio sostegno”.
Qualcuno – e con ben più d’una buona ragione – potrebbe a questo punto chiedersi in che consista la notizia. Con tutti i motivi di scandalo, con tutte le frottole e le crudeltà, con tutte le bestialità e gli esibizionismi che, tra oltraggio e ridicolo, il 45esimo presidente ha fin qui regalato all’America e al mondo, quale differenza può fare un po’ di turpiloquio, un “culo” piazzato qua e là nel corso d’un comizio nel Midwest? Bella domanda. Bella, ma per quanto statisticamente più che giustificata anche intrinsecamente sbagliata, perché per i suoi modi e i suoi tempi, e ancor più per il contesto nel quale è stata spesa, quella specifica rappresentazione delle (d’ora in poi le chiameremo così) natiche di Donald Trump – prima chiamate in causa e quindi esposte all’orale adorazione di chi invoca il suo aiuto – è in effetti la più perfetta istantanea (uno di quei magici momenti di verità che solo la fotografia riesce talora ad immortalare) dello stato della democrazia americana nell’approssimarsi delle elezioni di mezzo termine, chiamate a rinnovare tutti i 435 seggi della House of Representatives e, grossomodo, un terzo dei seggi del Senato.
Venendo al dunque. “J.D.”, il personaggio che “is kissing”, ha baciato e continua a baciare le natiche dell’ex presidente, è James David Vance, fresco vincitore – con la benedizione di Donald Trump – delle primarie repubblicane in vista della corsa, il prossimo 8 novembre, ad uno dei due seggi senatoriali dell’Ohio. E non è affatto un candidato qualunque. Né lo si può in alcun modo definire un qualunque trumpiano. J.D. Vance è, infatti, l’autore d’un eccellente libro di memorie familiari – Hillbilly Elegy, pubblicato nel 2016 e poi, nel 2020, tradotto da Ron Howard in un film che grazie soprattutto a Glenn Close ha conquistato un buon numero di nomination all’Oscar – a suo tempo accolto da critica e lettori per quello che in effetti era. Vale a dire: il molto vivido e a tratti poetico ritratto d’una America periferica, dimenticata e disperata (quella profonda degli “hillbilly”, per l’appunto) che, con didascalica chiarezza e in termini nient’affatto trumpiani, mostrava alle “élite liberal” le ragioni dolorosamente umane dell’allora ancora incompiuta, incomprensibile e populistica ascesa d’un folclorico ed inarticolato personaggio dall’impresentabile capigliatura e dall’ancor più impresentabile curriculum politico.
Repubblicano e conservatore, nato e cresciuto in quella realtà, ma capace di uscirne fino a frequentare le più prestigiose università Usa, J.D. Vance era, a quei tempi, l’antitesi del trumpismo. Lo era al punto da paragonare Donald Trump – da lui definito “un buffone”, “un razzista” e una sorta di nuovo Hitler a stelle e strisce – all’eroina che da tempo va facendo strage di vite e di coscienze in quelle profondità sociali “left behind”, lasciate indietro, come trascurabili cascami, dall’incedere delle “magnifiche sorti e progressive” della globalizzazione.
Ci vorrebbe un nuovo saggio biografico di 300 pagine – scritto con l’aiuto di un buon psicoanalista – per raccontare come quel J.D. Vance sia, in un quadriennio, diventato il J.D. del comizio di Youngtown. Quel che conta è però questo. Entrato in politica, J.D. Vance ha deciso di partecipare alle primarie repubblicane dell’Ohio. E, in grave ritardo nei sondaggi, ha quindi a lungo corteggiato (ed infine ottenuto) l’endorsement del “buffone” e del “razzista” di cui sopra, in sostanza scegliendo di fargli da “pusher” nello spaccio della sua droga politico-ideologica (se “ideologico” si può chiamare lo sgangherato culto della personalità di Donald Trump). Una scelta vincente che tuttavia aveva, in termini di personale dignità, un prezzo molto alto. Quello che – tra gli osanna e gli applausi degli astanti e dei suoi personali, offerti con occhi lucidi e tumide labbra – Donald Trump gli ha, con umiliante puntualità e sadica precisione, presentato durante il comizio nell’Ohio.
È vero, ha ricordato l’ex presidente, in passato J.D. ha detto brutte cose su di me. Ma poi mi ha conosciuto e ha – come poteva essere altrimenti – imparato ad amarmi. E per questo mi ha baciato e continua a baciarmi le natiche. Che questo messaggio fosse in realtà rivolto all’intero Partito Repubblicano (all’intera America, per molti aspetti) era evidente. J.D. mi ha baciato le natiche, ha lasciato intendere Trump, perché questo è oggi, nel Grand Old Party di Abraham Lincoln, il medievale e incondizionato rito di sottomissione, il prezzo dell’amore e dei favori del capo supremo.
Così, con le natiche di Donald Trump in primissimo piano, gli Stati Uniti d’America viaggiano oggi verso le elezioni di mezzo termine. E il bello è che in queste ore sono proprio i democratici – il presidente Joe Biden in particolare – a puntare metaforicamente i riflettori sulle parti posteriori dell’ex presidente, prove impudicamente provate d’una incombente minaccia “semi-fascista”. Le natiche di Donald Trump sono diventate, in attesa del responso delle urne, il più importante strumento di propaganda dei democratici. Ma su questo essenziale punto tornerò, con i dovuti dettagli, in un prossimo post.
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