Wall Street non rinuncia ai suoi Martini
Mi ricordo ancora l’espressione di totale incredulità sulla faccia del banchiere americano. Eravamo in un grattacielo di Hong Kong durante il grande boom prima della crisi e stavamo festeggiando il suo bonus principesco con cocktail dai prezzi stratosferici. Al quarto Martini, smise di parlare di sé (avvenimento raro tra i maghi della finanza) e mi chiese: «Did the newspaper look after you this year?» («Il giornale si è preso cura di te quest’anno?») – domanda che nel codice di Wall Street significa: che bonus hai preso?
Quando gli spiegai che i giornalisti non ricevono mega-pagamenti a fine anno, che questa tradizione esiste solo tra banchieri, operatori di borsa e affini, spalancò la bocca ma non riuscì ad emettere nemmeno un suono (un altro momento quasi unico per chi segue le grandi banche). Dopo pochi instanti, mi guardò sbigottito e con un filo di voce disse: «Ma allora, perché fai questo lavoro?».
Volevo rispondere «perché mi piace», ma sapevo che non avrebbe capito. Nessun banchiere di successo avrebbe capito. Per riuscire nel mondo crudele e darwiniano della finanza anglosassone bisogna essere spinti da un unico motivo: fare soldi. E non un po’ di soldi, quanti ne basterebbero a una persona «normale» per vivere bene e senza problemi finanziari. Assolutamente no, la molla per i grandi padroni della finanza è la prospettiva di guadagnare milioni e magari miliardi. Ladies and gentlemen, benvenuti a Wall Street, la strada dove ognuno ha un prezzo ma nessuno offre uno sconto.
Fino allo scoppio della crisi, questa mentalità – e il sistema finanziario che aveva creato – è stata uno dei motivi-chiave dell’enorme successo delle banche americane e della loro supremazia nel resto del mondo.
Lasciando da parte le considerazioni morali, è facile capire come la prospettiva di guadagni da nababbi abbia potuto creare un circolo virtuoso che ha fatto ricchi i banchieri, le loro aziende e gli investitori. Funziona così: la promessa di bonus a sei cifre spinge i banchieri e gli operatori a «vendere» sempre più prodotti e servizi a clienti, aumentando gli utili per le banche. Gli azionisti, a loro volta, sono contenti perché utili elevati si trasformano quasi sempre in valori azionari in crescita e dividendi rispettabili.
Il motivo per cui questa febbre dell’oro ha contagiato l’America più di ogni altro Paese – ed ha spinto le sue banche al top dell’industria mondiale – è culturale. A differenza della tradizione calvinista e puritana dell’Inghilterra e della Germania e del retaggio cattolico di Italia e Spagna, il nuovo continente non si è mai fatto scrupoli nell’esaltare la ricchezza personale, anzi l’ha assunta a stile di vita con la creazione e la divulgazione del «Sogno Americano».
È così che quando Lloyd Blankfein, il capo della Goldman Sachs, «guadagnò» 68 milioni di dollari tra contanti e azioni nel 2007 – anno di utili miliardari per la sua banca – la reazione degli opinionisti, e pure della gente, fu: «Che male c’è?» (Per la cronaca, la reazione degli altri banchieri fu: «Siamo sottopagati…»).
Non fosse stato per la crisi e la «Grande Recessione» che l’ha seguita, questa predilezione per incentivi monetari esorbitanti sarebbe probabilmente continuata per anni e anzi già cominciava ad essere copiata da qualche banca internazionale (come Deutsche Bank e Ubs) i cui grandi manager non volevano sentirsi da meno dei colleghi americani.
Ma come nei «Vestiti nuovi dell’imperatore» – la fiaba di Andersen – il tumulto devastante degli ultimi tre anni ha messo a nudo tutti i difetti di uno schema di remunerazione che, a ben guardare, è più una roulette russa che un sistema per ottenere il meglio da banchieri e banche.
Innanzitutto, pagare bonus di milioni in contanti alla fine di ogni anno incoraggia banchieri e operatori a rischiare tutto su scommesse a breve termine – le stesse che hanno portato le banche e l’economia mondiale sull’orlo dell’abisso. Non solo, ma la propensione delle banche a dirottare metà dei loro redditi alla remunerazione dei banchieri – una percentuale incredibile se paragonata ad altre industrie – è tollerabile dagli investitori solo negli anni «buoni». Quando una banca come Morgan Stanley, che non ha avuto utili nel 2009, ha deciso di pagare i banchieri come se fosse ancora nel boom, gli azionisti si sono giustamente ribellati.
Ma il vero problema è l’opinione pubblica. Le operazioni di salvataggio lanciate dal governo statunitense, che hanno messo a rischio miliardi di dollari «pubblici» per salvare le banche proprio mentre la disoccupazione stava crescendo e l’economia entrava in recessione, hanno intaccato la fede del cittadino medio nell’«American Dream».
È difficile spiegare a chi non vive in America il cambiamento drammatico e repentino nell’atteggiamento della gente, dei politici e dei sindacati nei confronti di Wall Street. Certe volte, quando scrivo di questi argomenti per il Financial Times, mi sembra di mandare dei dispacci dal fronte di una nuova guerra di classe.
Perfino un tipo pacato come il presidente Obama si è messo ad attaccare i bonus chiamandoli «osceni» e ricordando ai signori della finanza che lui non è stato eletto per aiutare un gruppo di «fat cats» (i gatti grassi – l’insulto riservato ai «ricconi»).
Lo scalpore ha già dato dei risultati. Il signor Blankfein si è fatto dare un bonus di «solo» 9 milioni di dollari per il 2009 in azioni nonostante il fatto che gli utili della Goldman abbiano superato quelli del 2007. E tutte le banche americane hanno pagato gran parte dei bonus in azioni invece che contanti – un tentativo di legare la paga dei banchieri al futuro a lungo termine dell’azienda.
La questione, però, è se le banche fanno sul serio o se questi cambiamenti sono solo una risposta a caldo alle critiche dei politici. I primi segnali non sono proprio incoraggianti: un paio di capi di banche di Wall Street mi hanno già sussurrato nell’orecchio che l’anno prossimo tenteranno di ripristinare il culto dei grandi bonus.
Se lo faranno, avranno sprecato un’occasione storica di cambiare in meglio l’industria finanziaria americana. Un sistema di remunerazione che pagasse salari decenti ma non esorbitanti in contanti e bonus più grandi in azioni avrebbe due vantaggi fondamentali per le banche: ridurre i costi, aumentando gli utili a disposizione degli azionisti (che in questo caso includerebbero anche i banchieri); evitare che i politici, esortati da un’opinione pubblica in rivolta, prendano misure drastiche che potrebbero colpire il bene più importante dell’industria finanziaria: i cervelloni stakanovisti che ci lavorano. Non sono ottimista di natura ma spero davvero, un giorno, di alzare un costosissimo Martini per brindare a una riforma di questo tipo invece che al grasso bonus di un banchiere.
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