Verde, nero e giallo. Non è il vessillo di un ennesimo nuovo Stato riconosciuto dall’Onu. Verde, nero e giallo sono invece i colori che rappresentano il disastro ambientale che, a una manciata di anni da Katrina, si sta abbattendo sulla costa meridionale degli Stati Uniti: dalla Louisiana alla Florida. C’è il verde dell’ambientalismo più dogmatico e intransigente, che ha gridato al tradimento quando un presidente, nero e pragmaticamente ecologista, si è dichiarato favorevole al nucleare per ridurre l’inquinamento atmosferico e i rischi connessi alle trivellazioni sempre più «audaci».
C’è il nero della marea di greggio che ormai ha iniziato ad abbattersi sulle coste, mettendo in ginocchio una parte del Paese già stremata, e che ci ricorda come i disastri provocati dall’uomo possiedono quasi invariabilmente due caratteristiche: sono peggiori dei disastri naturali e, contemporaneamente, potevano essere quasi sempre evitati, con un po’ più di cautela e con un po’ meno cupidigia. C’è il giallo, infine, che è il colore tradizionalmente associato al pericolo: quello che si sta materializzando nel Golfo del Messico, ma anche quello evocato da ogni discorso sul nucleare; il giallo, ancora, che ci ricorda della crescente domanda energetica cinese, associata alla totale sconsideratezza messa finora in mostra dalle autorità di Pechino sulle questioni ecologiche e ambientali.
Fuori di metafora, mentre si cercano i responsabili di un simile scempio e si tenta di correre ai ripari, si prova anche a quantificare il danno e a capire quanti decenni ci vorranno per rimettere più o meno in sesto l’ecosistema della zona. Una cosa però dovremmo averla chiara nella testa. A fronte di una domanda di energia che sarà crescente e di prezzi che non potranno che salire, incidenti come questi saranno più frequenti, non meno. Dovremo trivellare di più e in situazioni più estreme, per soddisfare la domanda, e il crescere dei prezzi renderà «economiche» trivellazioni in condizioni e in luoghi finora risparmiati dalle piattaforme e dalle torri. Se a questo uniamo gli appetiti delle compagnie e la mancanza di scrupoli dei governi non democratici, la nostra previsione diventa quasi una profezia che si auto-avvera.
Proprio la magnitudine della tragedia ci offre però anche l’opportunità di chiedere con forza che si ricominci, finalmente, a riflettere con serietà e senza pregiudizi sul fatto se il mondo può permettersi di continuare a puntare in maniera quasi esclusiva sugli idrocarburi e i combustibili fossili, con quel tanto di fonti rinnovabili che assolvono la nostra cattiva coscienza o se invece, all’inizio del XXI secolo il nucleare non sia alla fine l’investimento meno pericoloso. Anche su questo aleggia il colore del giallo, con dati che si inseguono e che si contraddicono, con «alibi» esibiti in luogo di prove, e sicurezza assolute sbandierate a destra e a manca. L’opinione pubblica ha invece il diritto di essere messa al corrente dei progressi compiuti verso un nucleare più sicuro come delle questioni ancora irrisolte (a partire da quella delle scorie).
È una responsabilità a cui sono chiamate la comunità scientifica e la classe politica, ognuna per la parte che le compete: agli scienziati di presentare il quadro più esaustivo possibile dello «stato dell’arte» e delle ragionevoli aspettative future; ai politici di assumere in maniera trasparente le decisioni che ritengono appropriate, di spiegarle e di convincere l’opinione pubblica della bontà della scelta adottata. E a tutti noi, il dovere di far valere il peso di un giudizio informato e non pregiudiziale: pensando un po’ di più, anche in questo campo, alle generazioni future è un po’ meno al nostro «giardino di casa». Assumendoci anche noi, qualunque sia l’opzione, le nostre responsabilità.
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