The U.S. and China: Condemned to Like Each Other

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Gli Usa e la Cina: condannati a piacersi

Washington e Pechino possono avere regimi politici, valori e interessi diversi, ma c’è qualcosa che li terrà uniti almeno fino alla fine della crisi: le rispettive esigenze economiche.

Alla vigilia della storica visita di Hu Jintao a Washington, nessuno si aspettava che i colloqui tra il presidente cinese e il suo omologo statunitense Obama potessero, come per magia, prescindere dalla realtà degli attuali equilibri politico-economici che governano i rapporti tra le due potenze. In effetti, le aspettative non sono state deluse.

Da parte americana – o meglio, dell’amministrazione Obama —la visita doveva coniugare due esigenze scarsamente conciliabili nel rapporto con la Cina: diritti umani e affari.

I primi sono da tempo una nota dolente del rapporto sino-americano, ma lo erano diventati ancor più dopo la schietta ma politicamente infelice uscita del segretario di Stato Hillary Clinton, che tempo addietro aveva dichiarato che la questione dei diritti umani non poteva in alcun modo “interferire” con le relazioni bilaterali tra i due paesi.

Recuperare la gaffe, salvando almeno le apparenze, era una priorità politica per l’amministrazione. A ciò si è indirizzato il discorso tenuto dalla stessa Clinton alla vigilia della visita, in cui si diceva che “l’America continuerà a premere sulla Cina” affinché rispetti i diritti umani, “denunciando” gli abusi.

Ma anche l’intervento dello stesso Obama che, in sede di colloqui, ha “riaffermato l’impegno fondamentale dell’America alla promozione dei diritti universali di tutte le genti”.

Dobbiamo credere sulla parola al presidente, dal momento che questi argomenti sono stati sollevati per lo più nel discreto ambito dei colloqui privati, in cui si è parlato di questo e molto altro.

Il ‘molto altro’ costituisce il vero nocciolo di questa visita, nonché l’oggetto di buona parte delle dichiarazioni pubbliche, comprese quelle rilasciate durante la conferenza stampa congiunta di circa un’ora.

A dominare il campo è stato un duplice imperativo economico: rilanciare le esportazioni americane verso l’unico paese (la Cina) oggi in grado di assorbirle in quantità, ridando fiato all’economia domestica piegata dalla crisi e a un’amministrazione i cui consensi risentono del travaglio occupazionale.

E lo speculare bisogno cinese di sviluppare un mercato interno frenato dagli alti tassi di risparmio, che hanno sì fatto di Pechino il banchiere di Washington, ma che ora minacciano di soffocarne la crescita, in una fase in cui l’America non importa più come un tempo.

In questa vigorosa confluenza d’interessi, frutto di un’ormai profonda interdipendenza reciproca, sta l’essenza del rapporto bilaterale Cina-America e la ragione ultima della visita di Hu – nonché dell’accoglienza trionfale a questi riservata.

A fronte della scarsa incisività dei richiami americani sui diritti umani e della fumosità degli impegni cinesi al riguardo (“abbiamo ancora molta strada da fare su questo, ma ci stiamo impegnando”, ha dichiarato Hu ai giornalisti), il limpido linguaggio degli accordi economici suona tutta un’altra musica.

In conferenza stampa, un raggiante Obama ha annunciato una serie di accordi commerciali che incrementeranno l’export americano in Cina per 45 miliardi di dollari, con conseguente creazione (almeno secondo i calcoli) di oltre 230 mila posti di lavoro.

Obama ha detto senza mezzi termini ai suoi interlocutori cinesi che l’America “vuole vendervi di tutto: aerei [una parte degli accordi prevede commesse per la Boeing], automobili, software” e che la Cina “deve aprire progressivamente il suo mercato interno ai prodotti americani, man mano che il reddito pro capite cresce”.

Non mancano certo frizioni anche in ambito economico.

In particolare, l’asserita sopravvalutazione dello yuan (la moneta cinese) rispetto al dollaro – che danneggerebbe l’export statunitense – e la spinosa questione della protezione dei diritti intellettuali, connessa alla piaga della fiorente industria cinese del falso, sono state sollevate da Obama.

Ma il fatto che questi pubblicamente abbia teso a ridimensionarle, affermando che esse costituiscono motivo di “occasionali divergenze”, la dice lunga sul clima che regna nei rapporti bilaterali.

Per quanto obbligata, la collaborazione politico-economica tra Cina e America è oggi un imperativo troppo urgente, per entrambi i paesi, per rischiare di comprometterlo con diatribe, seppur serie, che non ne toccano l’essenza.

È questa la dura lezione di realpolitik che l’incontro di Washington consegna ai suoi protagonisti e a tutti noi.

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