The Godfather: When Don Corleone Discovered America

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WASHINGTON Tom Santopietro aveva diciotto anni quando le luci si spensero nel cinema di Waterbury, nel Connecticut, e qualcosa si accese dentro di lui. Era il marzo 1972, e la voce dolente del becchino Amerigo Bonasera si alzò dalla prima sequenza de The Godfather per chiedere vendetta a Don Vito Corleone: «I believe in America …. credo nell’America, l’America fece la mia fortuna…» cominciò il becchino, mentre il don lo ascoltava accarezzando con sinistra dolcezza un gattino. «Andiamo via» disse la madre di Tom, ma lui non si mosse.

Era figlio di un siciliano e di una mamma inglese, Nancy, e per le quasi due ore del film, mentre la madre inorridita gli ripeteva «andiamo via, Tom, andiamo via» rimase inchiodato da quello che quarant’anni anni più tardi avrebbe chiamato in un suo libro: The Godfather Effect, “L’effetto del Padrino”. Fu qualcosa di molto più travolgente dell’effetto di un capolavoro del cinema. Fu la scoperta di una verità confusa impastata di ribrezzo e orgoglio, seduzione e repulsione: capì che cosa avesse significato essere italiani emigrati in America. Quanto terribile fosse stata l’esperienza dei suoi nonni siciliani gettati nel crogiolo americano, tra il disprezzo, la miseria, il rifiuto sociale, il ghetto e la tentazione del crimine. Aggrappati soltanto alla famiglia, per restare a galla e per andare a fondo.

Per miliardi di spettatori in tutto il mondo – Il Padrino Uno e Due sono stati doppiati anche in lingua tamil – la saga immaginaria della famiglia di Vito Andolini, trasformato in “Corleone” da uno sprezzante funzionario dell’immigrazione a Ellis Island, è stata e continua a essere un meraviglioso prodotto cinematografico, il meglio di quanto abbia saputo sfornare Hollywood tra fotografia, regia, recitazione e le onde pucciniane del grande Nino Rota. Ancora fresco, una generazione dopo il suo lancio, come un dipinto d’autore che ancora odori di vernice. Ma per milioni di americani di sangue italiano, visti come macchiette incapaci di pronunciare correttamente le r e le th dell’inglese, quell’opera fu la rivelazione di qualcosa che andò molto oltre, come Coppola stesso ammise, le intenzioni del regista, degli attori, della Paramount che lo distribuì.

A distanza di decenni può apparire incredibile che durante la produzione molte associazioni di italoamericani avessero protestato preventivamente e tentato di bloccare Coppola. La Lega per gli Italian American Civil Rights organizzò cortei di indignati davanti agli studi della Paramount per chiedere che la produzione fosse abbandonata perché «avrebbe rafforzato l’identificazione italiani uguale mafiosi». I Sons of Italy, i Cavalieri di Colombo, le comunità locali di nostri emigrati minacciarono picchettaggi davanti ai cinema che l’avessero proiettato. Non avevano completa mente torto. L’equazione italiano uguale mafioso è qualcosa che chiunque abbia vissuto o viaggi negli Stati Uniti conosce ancora oggi fin troppo bene. La “maledizione della vocale”, quella che alla fine del cognome ti identifica come italiano, ancora accende negli occhi degli interlocutori la piccola spia della domanda indicibile: «…Sarà mica anche lui….?». Nel 2009, quando già Cosa Nostra, o the Mob, il crimine organizzato, era già da tempo lontana dal suo zenith, uno studio dell’Fbi indicava che gli americani di origine italiana, il sei per cento della popolazione Usa, erano responsabili dello 0,00782 per cento dei reati. Eppure il 74 per cento delle persone, tre americani su quattro, secondo l’autorevole società demoscopica Zogby, erano – e probabilmente sono – convinti che ancora gli italoamericani conservino qualche legame con Cosa Nostra.

Ma se l’Effetto Padrino è stato quello di scolpire per sempre nella cultura popolare il bassorilievo della famiglia italiana mafiosa, il paradosso è quello che Tom Santopietro avvertì nel buio del cinema nel Connecticut: la definitiva americanizzazione dell’esperienza italiana, la sua assimilazione al mainstream. Tanto nel libro di Mario Puzo, dal quale il primo film è tratto, quanto nell’adattamento cinematografico, il filo del disinganno, dello scetticismo, della delusione per la promessa dell’America è la vera morale segreta dell’opera. La “famiglia” è certamente criminale, ma il mondo che la circonda non è migliore, è soltanto più mellifluo e ipocrita. Sono corrotti o corruttibili i poliziotti, i politicanti, i giornalisti, i giudici che Don Vito «porta in tasca» come lo rimprovera il «turco» Sollozzo. Corrottoè il grande capitale finanziario, come spiega il Don quando avverte che «in America si deve fare come i Rockefeller, prima rubare i soldi e poi distribuirli in beneficenza». E alla fine sono più sinceri, nella loro brutalità, gli stessi boss e i loro uomini, che non perdonano tradimenti, doppiezze e infamità.

È, quella dei Corleone, un’epopea completamente fittizia che solo vagamente si ispira alle cinque famiglie di New York. Seè penetrata nella cultura americana è perché nella fiction raccontava la verità, al punto di introdurre espressioni nel linguaggio comune: «Gli farò un’offerta che non potrà rifiutare»; «Tienii tuoi amici vicini, mai tuoi nemici ancora più vicini»; «Non prendere mai posizione contro la famiglia»; «Sono sempre i più intelligenti quelli che tradiscono». Nessun mafioso le aveva mai usate, ma anche i bravi ragazzi di Cosa Nostra le adottarono, dopo averle ascoltate sul set nel quale i produttori, Coppola, gli attori, soprattutto James Caan, “Santino”, l’erede violento e rozzo, li avevano invitati per copiarne i tic e le mosse. Parole come don, omertà, caporegime, consigliori, il consigliere, sono divenute comuni.

Maii quasi venti milioni di dollari spesi per produrre i primi due film (sul Padrino parte 3 ammiratori e critici preferiscono sorvolare) hanno reso tanto in termini di influenza culturale.

Il quasi mezzo miliardo di dollari incassato ai botteghini, i nove Oscar tra il primo e il secondo, la replica della saga che un canale televisivo americano ha messo in onda ininterrottamente per ventiquattr’ore, con le versioni non tagliate, non hanno mai dato la misura umana dell’effetto Padrino. «Ho capito vedendolo – ha detto Tom Santopietro- io che ero figlio di una middle classe cresciuta nei sobborghi, educata nelle scuole private con blazer blu e calzoni grigi, che cosa volesse dire mio nonno quando mi parlava tanto di famiglia. Non ho mai sognato per un solo istante di imitare Don Vito, di organizzare traffici illegali, di tagliare la testa a cavalli per intimidire. Ma ancora quarant’anni dopo, quando vedo Marlon Brando dare ad Al Pacino gli ultimi consigli prima di morire e poi rincorrere il nipotino tra le piante di pomodori, quando vedo De Niro rifiutare la carità di una scatola di cibo, ma portare alla moglie una bella pera, mi si gonfiano gli occhi. Penso a quanta strada abbiamo fatto, noi italoamericani, e quanto quella strada sia stata terribile per accettare la nostra eredità e diventare quello che siamo oggi». Oggi, due dei nove giudici della Corte Suprema sono italoamericani. Le famiglie italiane, quelle vere, hanno impiegato più di cent’anni, ma sono diventate completamente legittime.

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