Il ricercato negli Usa con una borsa di studio, naturalizzato l’11 settembre 2012. E lui metteva online video fondamentalisti
Fiamma Nirenstein – Sab, 20/04/2013 – 08:11
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«Un’auto trasporta un ceceno, un daghestano, un inguscio. Chi guida? La polizia…». Non c’è niente da ridere su quello che è successo a Boston, sull’identificazione dei due terroristi autori dell’attacco della maratona, la morte violenta del più grande, l’assedio di Boston, l’ulteriore spargimento di sangue, ma questa è una battuta postata dal ragazzo che ha compiuto insieme al fratello maggiore la strage, Dzhokhar Tsarnaev, sulla sua pagina del social network in russo VK. C’è la sua «visione del mondo»: «L’Islam» ma anche la sua «priorità»: «carriera e danaro». Vi si trova il link con le foto dei combattenti della guerra in Siria contro Bashar Assad, e il link con una pagina web che dice: «Non c’è altro Dio fuori di Allah, che questa voce suoni alta nei nostri cuori». È questa insalata jihadista, persino condita da humour, lo sfondo per cui un ragazzo di 19 anni è diventato un assassino di massa, e addirittura lo ha portato a compiere col fratello una specie di replay dell’attentato, uccidendo il giorno dopo la strage un poliziotto americano di 26 anni, e sgommando poi nella fuga sul corpo del fratello ucciso dalla polizia Tamerlan, un 26enne con ambizioni da pugile? Presto sapremo tutto sulla svolta islamista della vita dei due tragici protagonisti in questa America impazzita che, dopo l’Undici Settembre, per la prima volta deve di nuovo bere l’amaro calice del pericolo indiscriminato, dell’impotenza, della paura, anche se l’Fbi ha mostrato, ma solo ex post, una magnifica velocità nell’individuare i colpevoli.
Dzhokhar, come si vede nella foto diramata dalla polizia mentre invitava l’intera popolazione di Boston a restare chiusa in casa per evitare la sua ferocia armata anche di una cintura esplosiva, è un diciannovenne grazioso e tenero, gran ciuffo nero e occhi innocenti. Viene dalla miseria cecena, e certo non sapeva allora, nel 2002, che avrebbe attentato al sogno americano. Ha fatto la scuola elementare a Makhackhala sul confine col Daghestan, ha voglia di ridere, posta anche un video intitolato «tormentando mio fratello» in cui si vede Tamerlan, il fratello morto, che imita l’accento di diversi gruppi caucasici, come «Borat», il suo film preferito. Nel 2011 riceve una borsa di studio di 2500 dollari, un incoraggiamento, un invito ad amare i suoi ospiti e nuovi concittadini. «Quieto» lo definisce una sua compagna di università, una stupefatta moretta con la coda di cavallo: le è sempre apparso un ragazzo tranquillo, veniva anche alle feste ed era un bravo sportivo del corso all’Istituto Medico di Cambridge, uno studente senza problemi. Eppure tutto era già scritto sul web, nelle foto, nel credo ripetuto.
Talora le idee possono costituire non solo un maggiore spazio di libertà, ma anche la sua nemesi: non possiamo accettarlo, perché qui giace il consueto dilemma fra sicurezza e libertà di opinione che ci perseguita stavolta come sempre. Tamerlan, il fratello, era certo il suo modello, la sua biografia di bel ragazzo sportivo include la forte ispirazione islamica testimoniata dall’immenso diario del nostro tempo, il web, che non ci risparmia niente: era ligio, non frequentava gli americani perché non li capiva, non fumava, non beveva, non si toglieva la maglietta perché da religioso non voleva che le ragazze si facessero delle idee; eppure, sperava di essere selezionato, da bravo pugile, nella squadra olimpica americana.
Così funziona il terrore: si nutre della società circostante e sogna di cancellarla. La prova più agghiacciante è una foto in cui si vede Dzhokhar, col berretto bianco che poi ha aiutato a identificarlo, in piedi dietro la folla che è il suo obiettivo di morte. Probabilmente sta piazzando lo zainetto esplosivo. In prima fila, vicinissimo a lui, Martin Richard, il bambino di otto anni ucciso dal terrorista 19enne. Per quel ragazzo di diciannove anni che passa quasi fischiettando pronto a uccidere il bambino, come tanti altri innocenti, l’unica emozione probabilmente è stata quella dell’esaltazione ideologica. Come fu per Mohammad Atta, che prima di diventare il capo dell’attacco alle Twin Towers faceva parte, a Düsseldorf dove aveva studiato, di un sofisticato gruppo che progettava restauri di antichi monumenti egiziani, come uno dei vari Shahzad Tanweer o Mohamnmed Sadique Khan, il gruppo che attaccò la sotterranea e gli autobus di Londra, tutti perfetti british, amanti delle auto, dello sport, della vita inglese, e così anche tanti terroristi passati per l’Italia, all’università o al lavoro, per poi andare in campi di addestramento afghani che li avrebbero avviati verso vari attentati. Quasi nessuno dei terroristi più importanti è stato un emarginato, un espulso, un rifiutato nel Paese occidentale di formazione. Dzhokhar era molto legato ai suoi amici, «such a nice kid» che viveva nel campus di Cambridge. Un compagno lo ricorda come il campione di wrestling sempre pronto ad aiutare gli altri, uno che dava sempre una mano a tutti, volontario presso i ragazzi Down: «Un tipico ragazzo americano». Aveva ricevuto la cittadinanza americana solo l’11 settembre 2012, e subito ha scelto di farne buon uso.
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