Honoré de Balzac, qui sotto, aveva già detto tutto quasi duecento anni fa: l’ansia di «arrivare», la corruzione che prevale sul talento, il fatto che non c’è posto per tutti. Un secolo dopo, Joseph Schumpeter sottraeva l’arrivista ai salotti mondani, ai matrimoni d’interesse, alle piccole rendite, e lo gettava nel vortice dell’industria. A lui, trasformato in imprenditore, toccava trovare le nuove applicazioni dell’elettricità, della chimica, della meccanica all’alba della produzione di massa. Il suo premio era la distruzione creatrice, il profitto di monopolio, il rischio lo lasciava ai banchieri, alla società offriva lavoro e nuovi prodotti. Passano cinquant’anni e la nuova rivoluzione è la tecnologia dell’informazione, con il suo profeta Steve Jobs. I profitti sono gli stessi, ma questa volta la finanza è salita sul ponte di comando, il lavoro si crea solo in Cina e i nuovi prodotti sono sempre meno essenziali.
A nascondere la fatica di un capitalismo stagnante, nasce il mito delle «start-up», le nuove imprese che dal nulla possono avere l’idea geniale, incantare la finanza, diventare la nuova Apple, far arrivare gli arrivisti. Il mito di una società ridotta a mercato, dove si è «imprenditori di se stessi», individualisti in massimo grado, inevitabilmente narcisisti (ne ha parlato il nostro speciale «Dis-connessi» del 22 luglio scorso). Anche queste, «vite disuguali» rispetto a tutti gli altri, a chi manca d’ambizione, a chi ha perso la speranza, a chi ha – ancora, nonostante lo «spirito del tempo» – altri valori.
Questa volta al mercato non ci sono nuovi beni, cose utili a vivere dignitosamente, a lavorare meglio, a evitare di esaurire il pianeta. Questa volta ci sono gadget, idee carine in cerca di una nicchia, merci inutili ma capaci di sedurre la finanza, di durare il tempo di una speculazione. E, soprattutto, al mercato ormai ci sono – nude e crude – le persone. Non più, come ai tempi di Marx, la loro forza lavoro. Proprio tutte le persone: i cuori, le menti, le braccia, le identità, la fantasia. Persone che non chiedono più che sia pagato il loro lavoro, ma che scommettono sull’essere adottati dalla finanza, introdotti nel salotto mondano dei nostri giorni. Le persone della storia – e dei fatti – narrati da Costanza Galanti qui accanto.
Che tutto questo arrivi alle porte di Roma è inevitabile. Ma è paradossale che qui si rincorra il fantasma di Apple invece di tornare al nostro modello di grande impresa tecnologica, l’Olivetti arrivata prima di Apple a inventare il personal computer, capace di dare un senso all’impresa e dignità al lavoro, e poi perduta nella logica finanziaria dei nuovi proprietari.
C’è una differenza, oggi, rispetto a Balzac. Dalla rivoluzione industriale siamo arrivati al declino: lo sguardo dell’ambizione non è più una scalata alle moderne promesse della grande città; è la disorientata ricerca di sopravvivenza in una periferia in depressione.
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