Il mondo deve stringere i denti ancora un po’ prima che termini il mandato presidenziale di Barack Obama. Ma non sarà facile tener duro perché il peggiore presidente che gli Stati Uniti abbiano avuto nella loro storia recente non ha alcuna intenzione di cambiare registro, almeno in politica estera. Le crisi che si sono aperte in questi ultimi anni recano la sua firma, a cominciare dalla follia di promuovere le “primavere arabe”. Il cambio radicale nella filosofia delle alleanze, tradizionalmente perseguita dal gigante americano, è l’imputato da portare alla sbarra.
Il fatto che si stia cercando di chiudere l’accordo sul nucleare iraniano è cosa buona. Tuttavia, il desiderio della soluzione non può essere soddisfatto a scapito di Israele. La sensazione è che Obama sia pronto da tempo a voltare le spalle al partner storico degli Usa in Medio Oriente, costringendolo a subire la creazione delle Stato di Palestina in assenza di adeguate garanzie di sicurezza. Obama non ha nascosto una forte ostilità personale nei riguardi del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Per questo non ha fatto nulla per attenuare la delusione causatagli dalla vittoria elettorale di “Bibi” la scorsa settimana.
La Casa Bianca avrebbe preferito avere interlocutori a Gerusalemme più arrendevoli rispetto alla coriacea determinazione con la quale il leader del Likud difende gli interessi del suo Paese. Obama finge di non comprenderlo ma la pacificazione della regione mediorientale non è più affare che riguardi la soluzione del contenzioso israelo-palestinese. Che i due popoli trovino una strada per la pacifica convivenza è certamente auspicabile ma, al momento, le minacce che pervengono all’Occidente poco hanno a che fare con il problema della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Con la Libia in fiamme, la Siria nel caos e l’Iraq spezzato in due, il focus della politica estera americana dovrebbe essere orientato a sostenere gli sforzi di stabilizzazione degli equilibri tra i paesi dell’area senza rinnegare l’alleanza strategica con Israele.
Lo sbocco della crisi interna yemenita che, dopo la fuga del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi, vede prevalere sul campo le milizie filo iraniane nel sostanziale silenzio delle autorità americane, potrebbe determinare la reazione dell’Arabia Saudita e della galassia delle monarchie della regione, aprendo un ben più vasto e pericoloso fronte di crisi tra sunniti e sciiti. Per compiacere gli interessi del Qatar, Obama ha preso posizione contro l’ascesa al potere in Egitto del generale Al- Sisi. In precedenza, il presidente americano non aveva fatto mistero di guardare con occhio favorevole alla vittoria dei fratelli Mussulmani di Mohamed Morsi. Quegli stessi che il generale Al- Sisi ha isolato e neutralizzato.
Lo scorso anno, se si fosse seguita la politica della Casa Bianca, la coalizione occidentale avrebbe dovuto partecipare all’eliminazione del dittatore siriano Bashar Al- Assad, per favorire l’ascesa al potere dei combattenti jihadisti che hanno dato vita al Fronte Al-Nusra e all’Is di Al-Baghdadi, con lo scenario di sangue, di violenze e di devastazione di cui il mondo è testimone. Nell’area dell’Est europeo non è che le cose siano andate meglio. Il processo di avvicinamento della Federazione Russa alle democrazie occidentali è stato interrotto bruscamente. La demenziale campagna di sostegno al nazionalismo ucraino, in violazione delle più elementari regole di realpolitik, ha rischiato, e ancora rischia, di vedere l’Europa travolta da un insensato scontro frontale con la potenza eurasiatica.
Invece che gettare acqua sul fuoco, Obama continua ad alimentare le paure dei baltici, dei polacchi e degli stessi ucraini pur di armare la frontiera continentale contro la Federazione Russa. L’Europa, in fondo, era un posto tranquillo in cui vivere. Ora non lo è più grazie anche alle scelte imposte dalla Casa Bianca. Nessuna meraviglia, dunque, se un bel po’ di gente stia contando i giorni che separano mister Obama dall’addio alla “stanza ovale”.
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