America down. La tornata elettorale delle presidenziali si avvicina in un clima politico incandescente.
É il 4 novembre, il giorno dopo le 59me elezioni presidenziali Usa. Trump, sconfitto, non accetta il verdetto delle urne. E si barrica nello studio ovale. Non intende lasciare il posto di comando. Potrebbe accadere? Sì, ha detto Joe Biden nella intervista a Trevor Noah.
Trump potrebbe cercare di “rubare” le elezioni – è questa “la massima preoccupazione” di Biden – e in caso estremo potrebbe perfino arrivare a contestare l’esito del voto, rifiutandosi di lasciare la presidenza. Ma, in una simile evenienza, Biden è “assolutamente convinto” che interverrebbero i militari. Ci penserebbero loro a scortarlo fuori della Casa Bianca.
Il solo fatto che lo sfidante democratico di Donald Trump contempli seriamente uno scenario del genere dà la misura del livello di tensione in cui si entra nell’ultima fase, quella decisiva, del duello elettorale. Le parole di Biden fanno presagire 142 giorni, di qui a martedì 3 novembre, incandescenti. Trump sarà sulla linea dello scontro senza limiti, non indietreggiando di fronte al crescere delle contestazioni, ora anche nel suo stesso campo, ma, al contrario, spingendo ancora di più sui tasti della provocazione, innanzitutto su quelli razzisti, e pescando a piene mani nel suo sperimentato repertorio di menzogne, falsificazioni, “fatti alternativi”, frodi.
Trump ha buone ragioni, dal suo punto di vista, per insistere nella linea dello scontro frontale a oltranza. La prima, la più evidente, è che Trump non sa essere che Trump. Tutte le volte che ha provato a mitigare il suo messaggio, i suoi toni, non ha funzionato. Nella fase finale dello scontro con Hillary, amici e donors gli consigliavano di smussare, di essere “presidential”, temendo che la sua foga misogina si trasformasse in boomerang. Ci provò, ed era evidente l’inautenticità del bullo, che preferì allora dar retta a Steve Bannon.
Segui il tuo istinto, sii Trump, gli suggerì l’amico stratega, e vinse. La seconda ragione è nella convinzione che l’estremizzazione continua consolidi e motivi la sua base, il suo campo, mentre, sul fronte opposto, essa può provocare contraddizioni, tra chi esige risposte simmetriche e chi teme che reazioni dure possano spaventare l’elettorato moderato, con la conseguenza, alla fine, d’indebolire la candidatura di Biden e le prospettive di conquista dei due rami del Congresso.
In questi giorni l’assunto di Trump si sta rivelando fragile, mentre anche l’ultimo dei sondaggi conferma un forte distacco – otto punti – a favore di Biden, un trend che, in questa fase della campagna elettorale, secondo i precedenti storici, significa sconfitta certa alle urne. Peraltro, il 74% degli americani sostiene le proteste, e di questi il 54% dei repubblicani, con un 57% di americani che comprende la rabbia che ha portato alla rivolta, anche nelle sue forme più dure.
L’area “silenziosa” della destra che lo sostiene o lo voterebbe ancora non è in sintonia con l’escalation che Trump imprime alla sua campagna, teme che la spaccatura del paese da lui alimentata intenzionalmente non si fermerebbe con la sua rielezione ma aprirebbe le porte a un conflitto civile permanente, non solo razziale. Pezzi importanti di questo mondo sono usciti clamorosamente allo scoperto, non intendono essere trascinati nel suo vortice.
Non è un caso che Biden si sia spinto a prefigurare un intervento dei militari nel caso estremo di una sconfitta non accettata da Trump. La crisi dei rapporti del presidente con gli alti vertici delle forze armate era da tempo evidente, non necessariamente per ragioni che devono far immaginare generali nelle vesti di colombe e il presidente in quella di falco.
Caso mai il contrario. Come commader-in-chief Trump non è mai stato preso sul serio dai militari di carriera, per le sue intemperanze e imprevedibilità, per la sua spiccata tendenza isolazionista. Ma le incompatibilità sarebbero rimaste sullo sfondo se Trump non avesse provato – e incredibilmente continua a farlo – a coinvolgere le forze armate nella repressione del movimento di protesta, un tentativo considerato un oltraggio alla tradizione di estraneità dei militari alle vicende interne.
Una sfida aperta alla leadership militare, che ha reagito con fermezza, fino al discorso di autocritica del numero dei generali, Mike Milley. Milley, in tuta mimetica, aveva accompagnato Trump nella sua oscena passeggiata dalla Casa Bianca alla chiesa di Saint John, con enorme scandalo di tutti i suoi colleghi ed ex-colleghi generali. L’autocritica pubblica potrebbe essere seguita dal suo siluramento o dalle sue dimissioni, che accrescerebbero la portata della crisi. Un fatto politico enorme, senza precedenti.
Un fatto che simboleggia la battaglia nella quale si trova l’America, tra un paese che “stiamo cercando di lasciarci alle spalle, e che Trump rilancia”, “l’idea di un’America nazione bianca”, come osserva Eddie Glaude, direttore del dipartimento di studi africanoamericani a Princeton, e un’America che si muove verso il futuro.
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